Il 13 e il 14 ottobre ci siamo trovati a Bologna, giunti da diverse città italiane. Abbiamo condiviso due giorni di discussione sui temi della formazione, della comunicazione, della metropoli, della crisi internazionale e della posizione che in essa occupa il nostro paese. Ne è emersa un’analisi stimolante e sicuramente non conclusa, utile per continuare il percorso di lotta che abbiamo scelto, ben sapendo che non abbiamo possibilità di protagonismo se non a partire dalla ricomposizione. Per questo vogliamo condividere i nostri pensieri con tutti coloro che, in Italia, sono interessati allo sviluppo delle lotte e alla riproduzione di comportamenti conflittuali. Il nostro paese si inserisce nel contesto mediterraneo in modo anomalo: compresso da politiche di austerity durissime ma privo di fermenti sociali in grado di produrre scenari nuovi. La formula tecnocratica del governo vende agli elettori/telespettatori l’oppressione in forma di scienza, facendo leva sulla tradizionale idea di sapere come spazio neutro. La dittatura delle cifre si fonda sull’uso intelligente della crisi della rappresentanza come strumento di rafforzamento istituzionale in senso autoritario, con un effetto di decostruzione potente sulle ipotesi ingenue circa l’automatismo tra crisi del sistema e crollo naturale delle sue risorse di comando.
La tecnocrazia italiana si regge, in effetti, sul divide et impera della casta delegittimata e in via di decomposizione. Compito del governo è, in collaborazione con la magistratura e il capo dello stato, mettere in scena la condanna dei partiti, e al tempo stesso utilizzare la loro debolezza per portare avanti un vastissimo attacco alla società italiana. Per questo, accanto a una strategia per il controllo delle istituzioni, si approfondisce una strategia del controllo sociale. Questo controllo si attua molto meno con la repressione, e molto più con una messa a valore delle relazioni sociali, cui viene delegato il ruolo di tampone della sofferenza che non può più svolgere il welfare state. Non soltanto la famiglia, ma anche associazioni, fabbriche addomesticate della controcultura, cooperative sociali sempre in bilico tra volontarismo missionario e sfruttamento selvaggio sono ciò che il capitale utilizza per la riproduzione del suo dominio molecolare, come antidoto alla disgregazione prodotta dalle politiche di devastazione sociale. È l’interazione odierna tra istituzioni ed esseri umani, tra capitale e forze del lavoro vivo: la creazione di corpi intermedi tra l’individuo e lo stato, di cinghie di trasmissione del malinteso senso di solidarietà che i tecnocrati indicano nella socializzazione del debito e delle sue conseguenze sulla vita.
Com’è allora possibile, oggi, sviluppare l’alterità radicale, il contropotere, ossia l’antagonismo al sistema e, al tempo stesso, l’autonomia dal sistema? Non può voler dire, semplicemente, fondare un collettivo o un comitato contro la devastazione ambientale, né occupare uno stabile o organizzare un corteo. Tutto questo è importante, ma non basta. La riproduzione capitalista dell’accettazione sociale e della compatibilità politica ha bisogno non soltanto di solidarietà rassegnata, ma anche, da sempre nella sua forma democratica, di dissenso, diversità e dialogo, cortei-parata, ritualità disciplinata dell’astensione dal lavoro, attraversamenti regolati dello spazio urbano. Costruire zone di contropotere alla tecnocrazia significa, allora, in primo luogo, saper esercitare un controllo antagonista del territorio e dei suoi flussi, nella sottrazione tendenziale del comando urbano alle istituzioni capitaliste. Ciò presuppone la capacità di sviluppare processi politici autonomi dalla regolazione istituzionale: luoghi di decisione e prassi indipendenti, che abbiano la forza di imporsi come tali a fronte dell’autorità esercitata dal nostro avversario. La rinuncia, da parte dei governi degli ultimi 18 mesi, a tentare l’elaborazione di un piano di confronto istituzionale in Val di Susa dimostra che è possibile sottrarre al capitale, se non ancora un territorio, il controllo della progettazione politica sul territorio.
La valle non è, infatti, un luogo sottratto al controllo nemico – è una terra militarizzata – ma è luogo di sviluppo di energie opposte agli interessi capitalistici, di relazioni sociali antagoniste a quei criteri di valorizzazione. Questa è, in ultima analisi, la posta in palio dell’esercizio di un contropotere reale sui territori, nelle scuole e nelle università; non la presenza di enclave ideologizzate, o peggio di ghetti della testimonianza (ciò che in molti casi sono gli squat o i centri sociali), né di paradisi pseudo-liberati fuori o dentro le istituzioni. La posta in palio è la costruzione di relazioni sociali incompatibili con la valorizzazione capitalista perché militanti, al fine di sviluppare una soggettività combattente, il cui unico senso e scopo è capovolgere giorno dopo giorno, su mille piani sociali, i rapporti di forza con il capitale, in ogni tempo e spazio delle nostre vite. Il nostro scopo siamo noi stessi, come classe: il divenire altro da ciò che siamo, nel processo di scontro con l’esistente. Per questo, e non per purismo o ideologia, siamo contro la contrattazione di spazi di agibilità economica, architettonica o semantica con la politica istituzionale, e contro il dialogo con la polizia, con cui devono esistere soltanto incomunicabilità e scontro. Siamo contro tutto ciò che chiude spazi allo sviluppo delle lotte e brucia la possibilità di produrre aggregazione conflittuale nei quartieri, nei territori dove cresce il vuoto politico che è urgente riempire, prima di dover lottare per riconquistarlo.
Non crediamo siano oggi utili strutture astratte dell’antagonismo italiano, serve semmai il rimando continuo dagli uni agli altri, il richiamo positivo degli uni verso gli altri e, più ancora della semplice solidarietà, serve la riproduzione concreta dell’insubordinazione, spendendo le proprie energie affinché essa non resti mai marginale, ma diventi di massa sui territori in cui si agisce. Oggi è molto più importante parlare con le persone e saper ascoltare le persone che radunare qualche decina di compagni davanti a una prefettura, nell’istante del bisogno immediato. Occorre riuscire a comprendere le dinamiche attraverso cui è possibile trasformare il mondo a partire dal proprio contesto specifico, compiendo piccoli passi, ma radicando scontro dopo scontro condivisioni rivoluzionarie dell’orizzonte quotidiano, producendo organizzazioni di militanti che nel buio della crisi vedano come unica luce: la costruzione di una minaccia per l’ordine costituito. Per permettere la produzione conflittuale di soggettività nuova non è allora sufficiente la frequentazione di ambiti di affinità o, peggio, di tribù identitarie e/o intellettualistiche, tenute assieme dall’illusione che il mondo si cambi con il bel gesto individuale, con il look o con una particolare attitudine durante l’aperitivo. Occorre sapersi immergere nella realtà variegata e sempre sorprendente della società, compito mai facile, senza farsi spaventare dai rischi che questo può comportare – primo tra tutti, la rinuncia alla totalità delle proprie certezze.
Soltanto unendo le forze sui territori, e facendolo con metodo – ovvero agendo in modo organizzato – potremo fare del male ai nostri avversari. Abbiamo condiviso pienamente, come presupposto, la funzione fondamentale dell’organizzazione per un’azione politica che sappia incidere sul presente. Se il semplice ribellismo è terreno di coltura per la società dello spettacolo, l’organizzazione rivoluzionaria vive dell’autonomia delle forze vive, anzitutto attraverso il progetto; il suo unico recupero storico è la vittoria. Per questo non ci siamo trovati a Bologna per dirci quanto siamo belli e quanto siamo bravi, né con la convinzione di avere la verità in tasca. Siamo compagne e compagni che vivono ogni giorno la lotta sui territori, nulla di meno e nulla di più. Siamo consapevoli che i nostri sforzi sono vani se non producono allargamento, e che le nostre idee non hanno valore se non nella loro condivisione. Queste idee non sono e non saranno mai parte di un’ideologia, semmai espressione del rifiuto radicale di qualsiasi ideologia: nulla è nocivo alla contrapposizione quanto una rappresentazione coerente e statica del mondo che ci circonda, o la continua riproduzione di etichette e simboli; è ciò che da sempre impedisce ai soggetti politici, anche di movimento, il confronto/penetrazione con/nei soggetti sociali, dai cui comportamenti soltanto dipendono i rapporti di forza. Ben più radicalmente, è ciò che impedisce la nostra comprensione del reale, sempre dinamico e complesso – e sempre più imprevedibile delle evoluzioni che potremmo immaginare.
I compagni e le compagne riuniti nel meeting “Contropotere nella crisi”, Bologna, 13/14 ottobre 2012